Friday 29th of March 2024

GAS, quando l’alimentazione è anche una questione di solidarietà PDF Stampa
Scritto da Alessandro   


di Alessandro Vigiani

 

Riflessioni in libertà “dal di dentro” sul fenomeno dei gruppi d’acquisto solidale, una realtà in espansione anche nella nostra provincia.

 

A mo’ di introduzione

Partiamo dall’evidenza. Chiunque faccia parte di un GAS, alias Gruppo d’Acquisto Solidale, vi spiegherà, all’incirca, che questo acronimo (non privo di un che di sinistro) identifica un gruppo di persone che si sono organizzate per acquistare in comune beni di largo consumo “sani e giusti” e che si procurano questi beni al di fuori dei canali commerciali tradizionali. Se poi chiederete delle delucidazioni, vi sarà detto che “sani e giusti” sono i prodotti realizzati nel rispetto della natura e dell’uomo e che l’approvvigionamento del gruppo avviene applicando il criterio della filiera corta.

In definitiva, lo scopo di norma dichiarato dai componenti di un GAS è quello di acquistare direttamente dal produttore generi di prima necessità, soprattutto alimenti e detergenti per la casa e l’igiene personale, che siano stati ottenuti in prima istanza con metodi ecologici (coincidenti, per quanto attiene al settore agricolo, con le pratiche del biologico e del biodinamico), e inoltre senza sfruttamento né discriminazioni sul lavoro. Ho potuto però constatare che quest’ultima preoccupazione viene spesso avvertita come secondaria, forse perché i GAS si rivolgono per lo più ad aziende familiari o a cooperative di piccoli produttori, e dunque in questo senso – a torto o a ragione – ritengono che sia superfluo richiedere specifiche garanzie.

L’acquisto di gruppo permette di conseguire, essenzialmente, due “vantaggi di scala”: la suddivisione di mansioni e responsabilità rende possibile un’impresa che, compiuta in solitudine, sarebbe titanica; la richiesta di ingenti quantitativi di merce permette, normalmente, di strappare qualche agevolazione sui prezzi di vendita.

Criteri di scelta dei produttori, modalità di gestione di ordini e consegne sono delle variabili alquanto fluttuanti che cambiano da un GAS all’altro secondo la motivazione e la disponibilità, in termini di energie e risorse, dei rispettivi membri.

 

Tutto questo a che pro?

Molti degli “aderenti storici” del movimento dei GAS troveranno la mia introduzione alquanto irriverente e riduttiva. Lo è, e io stesso me ne rammarico. Il fatto è che, sulla base delle testimonianze che ho avuto modo di raccogliere nel corso della mia personale esperienza di “gassino”, mi riesce difficile andare oltre quello che ho detto.

La stessa domanda fondamentale, “tutto questo a che pro?”, può ricevere numerose risposte differenti secondo a chi viene posta: l’ecologista incallito porrà in evidenza la necessità di ridurre l’impatto ambientale delle pratiche agricole e dei trasporti su larga scala, l’anticapitalista convinto punterà l’indice contro le grandi aziende (preferibilmente multinazionali) del comparto agroalimentare e della distribuzione, il terzomondista d’antan sottolineerà il bisogno di unirsi alla lotta per l’affrancamento dei diseredati, il fedele delle comunità cristiane si richiamerà al valore della fratellanza universale...

è comunque chiaro, quali che siano le motivazioni addotte, che chi partecipa a un GAS in genere lo fa avendo bene a mente che le scelte di consumo non sono decisioni individuali prive di connessione con il contesto in cui si vive (anche se non manca neppure chi, semplicemente interessato al benessere proprio e dei propri cari, si rivolge al gruppo d’acquisto solo per ottenere prodotti bio ed eco di provenienza certa e, possibilmente, a prezzi inferiori a quelli di mercato). Al contrario, nei gassini è ben radicata la consapevolezza che ogni singolo atto di acquisto dà forza a tutta una serie di soggetti che stanno dietro al prodotto comperato: dettaglianti, grossisti, trasformatori e confezionatori, fornitori di materie prime... insomma, tutti gli anelli (alcuni, ahimè, debolissimi) della classica filiera lunga.

Da questa consapevolezza, unita a una spiccata sensibilità per i temi dell’ingiustizia sociale e della sopravvivenza del pianeta, scaturisce il desiderio di votarsi a un consumo critico e consapevole, nella convinzione che “il consumo è l’obiettivo finale di tutto il processo produttivo e che, nel consumare, contribuiamo a preservare o a distruggere gli ecosistemi, a salvaguardare posti di lavoro o a determinare i livelli di disoccupazione nel nostro paese o nella nostra città; contribuiamo a mantenere lo sfruttamento dei lavoratori in una società capitalista ingiusta o collaboriamo ad eliminarlo in ogni sua forma e a costruire una nuova società collaborativa e solidale” (Euclides Mance, La rivoluzione delle reti). La scelta di aderire a un GAS, da questo punto di vista, sembra la più adatta ad assicurare il rispetto di tutti i parametri fondanti del consumo critico, in quanto è l’unica capace di garantire fino in fondo l’acquisto di prodotti a basso impatto ambientale e sociale: solo rivolgendosi direttamente al produttore, infatti, si possono allo stesso tempo appurare i metodi produttivi adottati, limitare lo spreco di materiale da imballo, evitare gli irrazionali e inquinanti trasferimenti di merce tipici della filiera tradizionale, controllare come è organizzato il lavoro e chi e in quali condizioni presta la propria manodopera... Il GAS, perciò, si configura come luogo del consumo critico per antonomasia.

 

Dati, domande, ipotesi

I “teorici” del movimento sarebbero in grado di snocciolarvi una serie impressionante di ricadute positive generate dal modo di operare dei gruppi d’acquisto solidale (per averne un’idea basta visitare il sito della rete nazionale di collegamento dei GAS, www.retegas.org, e scaricare la documentazione ivi raccolta). Il problema, a mio modo di vedere, è che la loro elaborazione affonda le radici in una griglia concettuale ormai superata dai fatti. Nessuno me ne vorrà se asserisco che i grandi ideali che hanno senza dubbio ispirato all’inizio il movimento si sono quantomeno affievoliti nell’incontro con una “platea” ampia e diversificata, più disinvolta e prammatica. Anche qui (come, per restare a un ambito affine, nel commercio equo e solidale) ci troviamo di fronte alla vexata quaestio della “crisi di crescita”? Forse, ma non è questo di cui mi interessa dibattere in questa sede.

Più modestamente, e per venire a un argomento di qualche rilevanza antropologica, vorrei accennare all’ipotesi che dietro all’irresistibile ascesa del “fenomeno GAS” ci sia qualcos’altro in aggiunta all’impegno e alla dedizione di una risicata minoranza di cittadini consapevoli e attivi.

Se provassimo a visualizzare con una mappa la distribuzione e la consistenza numerica dei GAS presenti sul territorio nazionale, ci balzerebbe subito agli occhi un dato inoppugnabile: i gruppi di acquisto solidale sbocciano come funghi intorno alle grandi città del Nord e Centro Italia, mentre faticano ad affermarsi nei centri minori e, in genere, in tutto il Meridione (per dare un’idea di questa polarizzazione, mi limito a riferire che solo a Milano e hinterland sono ufficialmente censiti oltre una quarantina di GAS, a Roma e Firenze una ventina, mentre quelli di Napoli e Palermo si contano sulle dita di una mano).

Non vorrei cadere nel rischio di avallare delle rappresentazioni stereotipate delle diverse realtà socioculturali tirate in ballo (sociologi e antropologi trasalirebbero, e a ragione), ma credo che almeno una considerazione generale si imponga: l’esperienza dei GAS sembra trovare l’accoglienza più favorevole al centro, non ai margini del mondo globalizzato, in contesti che recano ben distinto il marchio delle economie compiutamente “sviluppate”. Ciò potrebbe indurre a pensare al fenomeno dei gruppi d’acquisto solidale come a una sorta di manifestazione di reattività rispetto a quel morboso processo di crescita economica che continua a essere perseguito in ogni dove del mondo “sviluppato”, benché abbia condotto a degli eccessi insostenibili per gli ecosistemi mettendo in dubbio la stessa possibilità di autoconservazione della specie umana.

Condivisione, fiducia, sostegno reciproco sono valori che sorreggono l’intera impalcatura dei GAS e che evocano un modello di interazioni sociali antitetico rispetto a quello di cui lo “sviluppo” economico si nutre. D’altronde sono stati gli stessi pionieri del movimento a teorizzare che i GAS nascano anche come risposta all’inderogabile bisogno di socializzare e di volgersi a stili di vita individualmente e collettivamente più appaganti (l’aspirazione al benvivere contrapposta a quella al benessere). Non è forse ciò descrivibile come un tentativo di attribuire inedite finalità relazionali a delle pratiche economiche ormai del tutto, pericolosamente, “disembedded”?

 

GAS... e poi?

Molti gassini amano descrivere i GAS ricorrendo alla metafora del seme. A ben vedere, in effetti, i gruppi d’acquisto solidale portano in sé un potenziale di cambiamento non indifferente, anche se il rischio è quello di vederlo disperso prima che possa “tracimare”. Quale sarebbe, allora, il secondo stadio di sviluppo del seme-GAS? Certamente quello del coinvolgimento di un numero sempre maggiore di produttori responsabili e di consumatori critici intenzionati a costruire una serie di microsistemi economici “paralleli” all’interno dei quali tutti gli scambi, in qualunque direzione avvengano, siano ispirati a principi di sostenibilità ambientale, giustizia e solidarietà. Al riguardo, c’è chi è passato di acronimo in acronimo e già da alcuni anni ha iniziato a elucubrare sui cosiddetti DES, Distretti di Economia Solidale, in alcuni casi avviando anche dei progetti-pilota (per la verità con risultati sin qui poco confortanti). Questo argomento sarebbe fonte di nuove riflessioni in libertà che mi porterebbero decisamente fuori del seminato. Tuttavia, per concludere, mi si conceda di solleticare la curiosità del lettore con un’autocitazione che, lungi dall’avere pretese esplicative, intende piuttosto sollevare interrogativi suscettibili di risposta solo attraverso l’approfondimento autonomo della questione: “Il DES si potrebbe definire come un mercato alternativo autoprotetto su scala locale. Mercato, perché è un circuito di scambi di beni e servizi. Alternativo, perché rifiuta di porre il profitto come fine ultimo dell’attività economica, al di là – e, se serve, contro – i bisogni e i desideri delle persone e i delicati equilibri degli ecosistemi. Al contrario, vuole riportare l’economia a essere ‘dentro’ la società e ‘per’ la società, promuovendo la collaborazione al posto della concorrenza, la reciprocità al posto della cieca legge della domanda e offerta, l’equità al posto della sperequazione, la partecipazione e il rispetto al posto dell’esclusione e dello sfruttamento. Autoprotetto, perché gli scambi avvengono in prima istanza al suo interno, nel senso che tutti i soggetti del distretto si sostengono a vicenda, utilizzando di preferenza l’uno i prodotti, i servizi e le prestazioni dell’altro. Su scala locale, perché il circuito si attiva su un territorio circoscritto, proprio con lo scopo di ‘incastonare’ l’economia in un ambiente sociale e naturale ben definito. Ciò non è contrario, anzi si pone a fondamento della costruzione di un nuovo sistema economico via via più allargato e complesso, fondato su una rete di relazioni fra DES dislocati in territori differenti” (Documento programmatico del progetto DES Arezzo).

 

(da “Percorsi Umbri. Rivista antropologica della Provincia di Perugia”, n. 2/3, giugno 2008)

 

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